Tre anni fa il terremoto ad Haiti - La testimonianza di suor Luisa dell'Orto
Haiti ricorda oggi il terzo anniversario del terremoto del 12 gennaio 2010. Allora furono 230mila le vittime e 300mila i feriti, un milione le persone senza casa e un milione quelle che ancora necessitano di aiuti. Ieri in proposito l’Unione Europea ha sbloccato finanziamenti per 30,5 milioni di euro mentre oggi nella capitale Port-au-Prince, il presidente Michel Martelly presiederà ad una cerimonia di commemorazione. Benedetta Capelli ha raggiunto telefonicamente ad Haiti suor Luisa dell’Orto delle Piccole Sorelle del Vangelo di Charles de Foucauld, già presente sull’isola ai tempi del sisma. Ascoltiamo la sua testimonianza:
R. - Tre anni fa ero qui, nella capitale Port-au-Prince quindi ho vissuto in prima persona il terremoto. La grossa difficoltà e la grossa sofferenza era visibile soprattutto nella capitale e nei dintorni, dove il terremoto ha colpito fortemente. A tre anni di distanza, il grande cambiamento è che non ci sono più i campi di tende vicino all’aeroporto e i campi di tende sulle grandi piazze pubbliche: c’è stato uno sforzo enorme di ritorno alla normalità, cercando di offrire a queste persone che erano nelle tende un aiuto finanziario per trovare un affitto o per poter costruire o ricostruire qualcosa su uno spazio che possedevano prima del terremoto. A parte questo, la città sembra ancora un po’ bombardata, ma si sta già preparando il carnevale. Questo per dire come la voglia di vivere del popolo haitiano continua e quello che è la musica, quello che è l’espressione di vita, l’espressione di superamento della sofferenza e della morte, è grande.
D. - Lei di cosa si occupa e come vive con le sue consorelle?
R. - Noi abitiamo in un quartiere abbastanza popolare. Abbiamo una scuola elementare, che è una delle prime scuole elementari del quartiere, perché non c’è ancora la presenza delle scuole di stato. Dopo il terremoto, vista la situazione, abbiamo creato un piccolo centro per aiutare i bambini che all’epoca - subito dopo il terremoto - abitando nelle tende, non avevano luogo di incontro e non avevano soprattutto un luogo per giocare, per fare i compiti, per stare un po’ insieme; così, abbiamo creato questo centro che continua a esistere ancora oggi. Quindi tutta un’attività educativa diciamo “alternativa” rispetto alla scuola, per la quale vorremmo far passare la possibilità di costruire insieme, essere solidali per costruire insieme
di nuovo. Questo centro e le altre attività di formazione che facciamo nel quartiere di formazione vogliono, tentano - molto modestamente - di dare una mano a ricostruire i valori, a ricostruire il senso di avere una dignità, alla possibilità che non si è maledetti e che con la Buona Notizia - con il Vangelo - Dio ama il popolo haitiano.
D. - Nei bambini qual è il segno, secondo lei, più evidente che ha lasciato il terremoto?
R. - Quando un camion passa su una strada e provoca rumori, i bambini in classe - ancora dopo tre anni - hanno paura e hanno la reazione di uscire. Quindi, questo è il primo trauma che resta: il ricordo di questo rumore che il terremoto aveva provocato, resta ancora dentro fisicamente. Questi tre anni hanno abituato i bambini ed anche le famiglie a vivere in condizioni minimali, questo “provvisorio” sta diventando qualcosa di così normale che uno dice “non vale la pena fare altri sforzi”. Allora, quello su cui aiutare ed accompagnare mi sembra e questa capacità di dire: “posso intervenire per migliorare; per migliorare il modo in cui tengo il quaderno, il modo in cui tengo la mia cartella e il modo con cui conservo la pulizia nel cortile della scuola”. Piccoli elementi che possiamo trasmettere ai bambini, che aiutano poi anche a vivere e a ritrovare energie per riprendere forza nella vita sociale. La speranza c’è: perché è l’uscita da queste condizioni che è veramente faticosa - dopo il terremoto c’è stato il colera, poi ci sono stati cicloni - quindi, il Paese, in questi tre anni, ha sofferto. I prezzi sono saliti tantissimo anche per la produzione locale, anche per comprare le banane, anche per comprare le patate; tutto questo rende la vita faticosa. Ci vuole un progetto generale di ricostruzione della società: aiutare la persona a ritrovare i valori.
D. - Lei perché ha deciso di restare?
R. - Il fatto di non avere avuto la casa distrutta e che nessuno di noi è stato ferito ha subito aggregato le persone attorno a noi per vedere come fare. Non c’è mai venuto in mente di lasciare, proprio perché abbiamo condiviso con la gente il momento difficile e poi anche il momento anche di ripresa, come intervenire, come si poteva cercare l’acqua, come si poteva mangiare, come ci si poteva organizzare nei campi. Quindi, questa idea di partire non c’è mai stata, è stata piuttosto quella di continuare a vivere con la gente: come se qualcuno della sua famiglia è malato, non è che lo lascia solo, è proprio lì il momento in cui uno sta più vicino alle persone. Questo popolo diventa la grande famiglia nostra, la famiglia anche dei figli di Dio ed in questa famiglia si condivide e le gioie e le sofferenze.
Intervista a Radio Vaticana 12 gennaio 2013